Una storia himalayana. India, 2017 (parte 1)

Questa è una storia che parte da lontano. Precisamente nel febbraio del 2013, quando insieme ad altri fotografi, ho partecipato, in India, al Maha Kumbh Mela di Allahabad. Il più grande festival religioso indù, ma anche il più grande raduno di massa della storia dell’umanità. Più di cento milioni di persone arrivate in un mese a pochi chilometri dalla città indiana, dove si incontrano i tre fiumi più sacri per gli induisti, il Gange, lo Yamuna e il misterioso e sotterraneo Sarasvathy. Di questo straordinario, anche dal punto di vista fotografico, evento ho già parlato in un altro post (https://www.robertonistri.it/2017/02/10/maha-kumbh-mela-allahabad-un-astronave-indiana-che-ha-attraversato-millenni-di-storia-umana/). In quei giorni, camminando tra le centinaia di migliaia di tende (600.000 solo quelle piantate lungo le sponde del Ganga dall’esercito indiano) incontrammo una persona particolarmente interessante. Italiano, allora cinquantenne, di Bolzano, alto, occhi azzurri e lunghi capelli castano rossicci raccolti da un cappello si stoffa. Ci raccontò che, giovanissimo, dopo anni di irrequieti vagabondaggi in India, decise di intraprendere un percorso spirituale radicale, estremo. E proprio durante un Kumbh Mela, abbracciò l’induismo e si ritirò in meditazione tra le montagne pre-himalaiane dell’India, a circa 100 km da Rishikesh. Città sacra, situata nel nord del paese, e conosciuta in occidente soprattutto per la visita dei Beatles (accompagnati da molti amici, tra cui il cantante Donovan e l’attrice Mia Farrow) al mistico Maharishi Mahesh Yogi, l’inventore della tecnica nota come Meditazione Trascendentale. Fu lui ad invitarli e successivamente ospitarli nel suo ashram poco distante dal Gange, che lì scorre spumeggiante, attraversato da due spettacolari ponti sospesi. Ma torniamo al nostro guru di Bolzano, Shiri Shakumbhari Devi il suo nome indiano, quello italiano non l’ho mai saputo. Anche lui ci invitò, con tanto di biglietto da visita, nel suo rifugio tra le montagne. Il microscopico villaggio di Gangi, dove passava la maggior parte della sua vita pregando e coltivando la terra, aiutato da un naga sadhu, sacerdote guerriero della setta dei Juna Akara. Chi cerca storie interessanti da raccontare un’occasione del genere può perdersela? A giugno del 2017 decido di tornare nuovamente in India, questa volta da solo, questa volta nel nord del continente. Per visitare Rishikesh, da sempre patria degli “alternativi”, più o meno giovani, di mezzo mondo, ma anche Haritwar, dove si celebra il secondo Kumbh Mela, per importanza, dopo quello di Allahabad. Qui, tra le due città, talvolta sfiorandole o entrando pericolosamente al loro interno, si estende un grande parco nazionale, il Rajaji National Park, che ospita un buon numero di tigri, moltissimi elusivi leopardi, e tanti elefanti asiatici, ormai rari da osservare in natura. Ma il vero scopo del mio viaggio era evidentemente quello di arrivare a Ganghi, un villaggio talmente minuscolo e remoto da essere difficile da trovare anche su Google Earth. E lì la casa di Shiri, una caverna scavata dall’acqua nella roccia della montagna. Una bolla al cui interno il tempo sembra essersi fermato, riuscendo a tenere lontano dal suo abitante ogni traccia di modernità.

Sono partito da Delhi con una macchina di un’agenzia con cui lavoro da tempo, con un’autista che mi dovrebbe proteggere dai deliri del traffico indiano. E un trasmettitore GPS che mi dovrebbe tenere lontano da guai, o quantomeno provare a tirarmici fuori se arrivano. Da Rishikesh insieme a lui, il driver, prevediamo (male), almeno cinque o sei ore di strada per arrivare, se non a Gangi, almeno in un villaggio da cui lo si possa raggiungere. Ne sono passate poco più quattro, di ore quando la strada, da asfaltata che era, diventa sterrata, anche se ancora piuttosto buona. Salendo di quota, il paesaggio intorno a noi è cambiato rapidamente. I boschi di conifere iniziano a sostituire la vegetazione tropicale, pellegrini e viandanti a piedi le persone che si spostano con le macchine e con le moto. Percorriamo tornanti interminabili circondati da paesaggi meravigliosi, seguendo una profonda valle scavata da un impetuoso torrente che arriva direttamene dalle montagne dell’Himalaya. Sono circa 9 ore che guidiamo, sta facendo buio, la strada diventa sempre più brutta e, d’improvviso inizia a piovere con violenza. Decidiamo di ritornare verso l’ultimo villaggio attraversato, scopriremo più tardi che si chiama Ghuttu, per trovare un posto dove poter mangiare e dormire. Il mio driver rintraccia una specie di sindaco locale, a cui chiediamo informazioni su come poter raggiungere Gangi. Entusiasta ci promette che ci penserà lui a organizzare una spedizione “stile National Geographic”, conosciuto evidentemente anche nell’India remota, con muli e cavalli, per trasportare attrezzatura e persone. La strada carrabile, solo con un fuoristrada, infatti, finisce a qualche chilometro da Ghuttu. Per arrivare a Ghangi ci sono, però ancora più 10 Km di sentiero e 1200 metri di dislivello da percorrere a piedi. Ma mentre ci accordiamo sul quanto mi costerà questo transfer tra le montagne himalayane, una notizia arriva a stravolgere completamente i miei piani (continua).

Roberto Nistri
www.robertonistri.com

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