Una storia himalayana. India, 2017 (parte 2)

Eravamo rimasti (leggi la prima parte del post) a quando, tra le montagne pre-himalyane dell’India, sto provando ad organizzare una spedizione che, dal remoto villaggio di Ghuttu, mi porti all’ancor più remoto villaggio di Gangi, 1000 metri di dislivello verso l’alto. Sono alla ricerca di un italiano conosciuto al Kumbh Mela di Allahabad nel 2013 (leggi la storia), diventato un baba hindu, e che lì vive da decenni in una grotta diventata la sua casa. Quando mostro la sua foto ai locali che si dovrebbero occupare della logistica del nostro viaggio, la loro risposta mi spiazza non poco. “Non c’è più il baba italiano, è stato arrestato alcun mesi fa. Pensiamo che ora sia in carcere ad Haridwar”. “Arrestato? E per cosa? Da chi?” – rispondo io. Che non riesco veramente a capire come questo possa essere successo in un posto dove non sembra esserci alcuna traccia, ne bisogno, di forze dell’ordine. In realtà la storia è complessa e affonda le radici in un sentimento di invidia dei religiosi locali nei confronti di quello straniero, così conosciuto, e ammirato dai credenti dell’intera regione. Più di vent’anni di meditazione eremitica in una grotta di montagna devono pure contare qualcosa. E sono probabilmente il motivo di un carisma riconosciuto, e dell’ininterrotto flusso di pellegrini che raggiungevano quel remoto villaggio per mostrargli devozione e rispetto. Una cosa va spiegata. In India il chiamiamolo “clero” hindu, sopravvive o, in alcuni casi, diventa ricco, solo grazie alle donazioni di fedeli e pellegrini. Milioni di follower nel caso dei baba superstar, centinaia di devoti per un ascetico religioso di montagna. Un fatto questo che deve avere evidentemente creato delle poco ecumeniche gelosie nei locali gestori degli altri piccoli templi della zona. Oscurati dalla fama dello “straniero” e per questo, forse, tagliati fuori dal locale flusso di risorse costituito dalle visite dei pellegrini. Nei giorni successivi al mio arrivo, mentre mi muovevo con il mio fixer nei dintorni di Ghuttu, ho visitato proprio uno di questi piccoli templi locali, parlando con due dei suoi “gestori”. Entrambi molto soddisfatti per l’arresto di quello che, evidentemente, consideravano un pericoloso competitor. Ma torniamo alle motivazioni che hanno portato in carcere il baba italiano, accusato dalla polizia di detenere nella sua abitazione una quantità, sembra neppure ingente, di hashish o marjuana. Un’imputazione ridicola agli occhi di chiunque abbia partecipato a un Kumbh Mela o a un’altra delle infinite feste religiose che si svolgono in India. Feste dove vedere i “religiosi”, baba e sadhu, fumare derivati psicotropi dalla canapa è cosa del tutto normale, legale e consentita. Essendo questa pratica considerata direttamente collegata alle loro attività meditative. L’operazione contro il mistico di Bolzano, diventa, quindi, una semplice vendetta di chi, dalla sua presenza, si sentiva evidentemente sminuito e danneggiato.
Persa a quel punto, la possibilità di raccontare una storia che mi aveva spinto in un posto così remoto, tra quelle montagne sono comunque rimasto diversi giorni. Rapito dalla imponente bellezza dello skyline himalayano, scintillante e imponente sfondo, lontano sull’orizzonte, di panorami così belli e affascinanti. Ma anche dalla vita di questo minuscolo villaggio, Ghuttu, attraversato da un torrente dove il flusso impetuoso dell’acqua, già torbida per le prime piogge monsoniche, scorreva spumeggiante, interrotta da grandi rocce levigate da migliaia di anni di turbolente piene. A poco meno di un chilometro dalle ultime case, dove la valle creata dal fiume si apriva, campi di riso coltivato a terrazze per seguire il rilevo del terreno, di un verde così saturo da apparire quasi irreale, si estendevano a perdita d’occhio. Ovunque giovani e meno donne dai sari colorati, curve sul terreno, erano impegnate a tenere pulite le coltivazioni dalle erbacce, in attesa che arrivasse il momento del raccolto. Un lavoro molto duro, che inizia la mattina all’alba e finisce solo quando il sole scende dietro le montagne, svolto solo da donne. Con i pochi uomini che si occupano invece dell’aratura delle risaie, parzialmente o totalmente allagate. Un lavoro anch’esso molto duro, che viene svolto utilizzando aratri tradizionali costruiti in legno e metallo, trainati da buoi. Gli unici animali capaci di muoversi disinvoltamente nel fango e nell’acqua. L’immagine di un’agricoltura pre-industriale, che ci riporta indietro ad alcune centinaia di anni fa. Ma che nell’India rurale dei nostri tempi è ancora ampiamente praticata, anche in località molto meno remote. Ghuttu è anche il terminal di fuoristrada utilizzati come piccoli bus sempre stracolmi di merci e persone, che collegano questa area con le città di Hardwar e Rishikesh. Nella sua piccola piazza, dove sono legati cavalli e asini adornati da finimenti colorati, i normali mezzi di trasporto per gli spostamenti dei locali, arrivano ogni giorno dai villaggi vicini e lontani, decine di persone. Spesso appartenenti a tribù di montagna, con le loro caratteristiche acconciature e i volti delle donne ornati da monili d’oro. Prima di partire bambini con lineamenti mongolici che ricordano quelli nepalesi, mangiano piatti a base di riso e verdure insieme alle loro famiglie, nell’unico microscopico ristorante del villaggio. Lo stesso dove anche io regolarmente pranzo e ceno. Una mattina, con una vecchia e malandatissima jeep presa in affitto da un locale, arriviamo con il mio fixer al termine di una strada che porta a Gangi, percorrendo i ripidi tornanti di una sconnessa mulattiera di montagna che arriva fino a 2.500 metri di altitudine. Da questo punto si può continuare solo a piedi, o in groppa a un asino, se ci si fida delle sue abilità di marciatore su sentieri sempre delimitati da impressionanti precipizi. È qui che incontro due giovani trekker indiani, di ritorno proprio da Gangi. “Un villaggio molto bello, anche se arrivarci è stato faticoso”, mi racconta uno dei due. “Nonostante il nostro allenamento, il mio compagno di marcia, affrontando un dislivello di 1100 m in meno di dieci chilometri, è stato colpito, poco prima dell’arrivo, da un inaspettato quanto violento attacco di “mal di altitudine, che l’ha quasi paralizzato. Costringendolo in pratica a trascinarsi penosamente per le ultime centinaia di metri di strada, che ha impiegato più di un’ora a percorrere”. Storie di camminatori sulle strade del nostro Pianeta.
Io, dopo una settimana passata tra quelle montagne incontaminate, me ne ritorno a Rishikesh, dove mi aspettano le tigri e gli elefanti del Rajaji National Park e la tribù nomade dei Van Gujar. Ma questa è tutta un’altra storia.

12-11-2023

www.robertonistri.com

 

Leggi altra storie indiane:
Varanasi, India. Visioni da un passato remoto.
I “big cats” del Ranthambore National Park.